Nel panorama finanziario, il discorso sull’incidenza delle Big Tech sui portafogli d’investimento ha raggiunto livelli di fervore ineguagliati. Fino al 20 dicembre, l’influenza delle dieci principali aziende tecnologiche americane ha toccato un nuovo picco, con una ponderazione del 37,6% all’interno degli indici azionari. Se si restringe l’analisi alle prime tre, il loro peso sale addirittura al 20,6%, un fenomeno che riflette non solo la loro dominanza economica ma anche la loro capacità di influenzare le sorti del mercato.
Questo effetto ha portato l’indice azionario americano a registrare il più ampio differenziale – dati dal 2003 ad oggi – di guadagno annuale rispetto a un paniere equiponderato, dove ogni azione ha lo stesso peso indipendentemente dalla sua capitalizzazione di mercato. In pratica, ciò significa che le performance stellari delle Big Tech hanno spinto gli indici azionari a livelli di crescita che un mercato diversificato tradizionalmente non avrebbe potuto raggiungere.
Tale dinamica mette in luce quanto il destino di molti investitori sia legato al successo o all’insuccesso di un pugno di colossi tecnologici. Quando le azioni di queste aziende salgono, trascinano con sé non solo i loro valori di mercato ma anche l’intero indice, creando un effetto di ricchezza che si diffonde tra gli investitori. Tuttavia, questa concentrazione presenta anche dei rischi: un’inversione di tendenza potrebbe avere un impatto devastante, data la proporzione enorme del loro peso sull’indice.
Per comprendere meglio, consideriamo che una ponderazione del 37,6% per le prime dieci Big Tech significa che quasi due quinti dell’indice sono influenzati direttamente dalle sorti di queste aziende. Questo non è solo un dato tecnico; rappresenta una realtà economica dove le decisioni aziendali, le innovazioni tecnologiche, o anche le variazioni nei consumi possono scuotere l’intero mercato.
Un dato interessante che emerge dal 2024 è la sorprendente similarità delle performance rispetto all’anno precedente, sia per l’indice S&P 500 che per la sua versione equiponderata (RSP), nonostante una maggiore partecipazione dei vari settori.
Se nel 2023 i settori dei consumi di base, utilities e dell’energia avevano chiuso l’anno con risultati negativi, il 2024 presenta un panorama diverso dove nessun settore mostra performance in negativo. Questo anno ha visto il settore finanziario emergere come uno dei leader, posizionandosi al secondo posto per performance da inizio anno. Accanto a esso, le utilities hanno brillato, confermando la loro importanza nel mosaico economico. I settori tradizionalmente forti come quelli dei consumi discrezionali, della tecnologia e delle comunicazioni hanno continuato a contribuire significativamente, mantenendo alto il valore complessivo dell’indice.
La sovraperformance della ponderazione rispetto all’equiponderazione è un fenomeno evidente anche nel contesto del Nasdaq 100. L’ETF Invesco QQQ, che riflette l’indice ponderato per capitalizzazione, ha registrato un aumento da inizio anno (dato al 25 dicembre) del 28% circa, sovraperformando significativamente, di quasi il 18,50%, l’indice equal-weight NDXE. Una percentuale di sovraperformance che segna massimi storici dai dati disponibili a partire dal 2005. Questo effetto di sovraperformance non è ristretto solo agli Stati Uniti ma si estende anche alla Cina e all’Europa. In Cina, l’indice Hang Seng ha mostrato una tendenza simile, dove le aziende con una maggiore ponderazione hanno guidato la crescita dell’indice. In Europa, il fenomeno è evidente in diversi dei principali mercati azionari: dal FTSE 100 in Inghilterra, al CAC 40 in Francia, fino al DAX in Germania. In ognuno di questi indici, le aziende più grandi per capitalizzazione hanno influenzato maggiormente la performance complessiva rispetto a una distribuzione equa delle azioni.
Tra i principali mercati che sembrano contraddire questa tendenza troviamo il principale listino italiano, il FTSE MIB. Al 24 dicembre, il FTSE MIB ha segnato il distacco più significativo dall’inizio dell’anno tra l’indice equiponderato e quello ponderato in base alla capitalizzazione di mercato.
Mentre le prime 10 aziende dello S&P 500 rappresentano il 37,6% del totale, nel FTSE MIB la concentrazione è molto più accentuata. Le prime 10 aziende del FTSE MIB contribuiscono per un massiccio 71% del totale, dimostrando una dipendenza sproporzionata da pochi titoli. Questo dato mette in luce una concentrazione di potere economico all’interno del mercato italiano che supera di gran lunga quella americana.
Le banche italiane, come Intesa Sanpaolo con un rialzo del 57% da inizio anno e UniCredit con un incremento del 65%, non presentano problemi, anzi, sono tra i principali driver di crescita dell’indice. Tuttavia, non tutte le grandi aziende riescono a mantenere questo slancio. Enel, con un’incidenza del 11,70%, ha registrato un rendimento del 7,83% ma ha mostrato segni di debolezza nell’ultimo trimestre con un calo del 5,24%. Eni, con un peso del 6,12%, ha visto il suo titolo diminuire dell’11% da inizio anno, mentre Stellantis, con un’incidenza del 5,17%, ha subito un crollo del 41%. Anche STM, con un peso del 3,20%, ha registrato una flessione significativa del 46,66%.
Questo quadro eterogeneo di performance aziendali nel FTSE MIB evidenzia come l’equiponderazione possa offrire un approccio più bilanciato. Con ben 12 aziende, tra cui ERG, che nonostante la sua recente uscita dall’indice ha influenzato la performance annuale, su un totale di 40 a riportare risultati negativi, e con le prime cinque aziende per rialzo (Unipol, Banca Monte dei Paschi, BPER, Banco BPM e Leonardo) che non coincidono con le dieci a maggior ponderazione, la strategia di equiponderazione appare come una scelta saggia per gli investitori italiani. Nell’Italia del FTSE MIB, la diversificazione non è solo una pratica consigliata, ma una necessità per navigare tra performance discordanti, si potrebbe quindi concludere.