Si chiude oggi il tanto atteso meeting di marzo del Federal Open Market Committee (FOMC), con la decisione sui tassi e la pubblicazione delle nuove previsioni economiche. Il consenso di mercato è pressoché unanime (99% nei CME FedFunds) nell’aspettarsi che la Federal Reserve mantenga invariata la forchetta dei fed funds tra il 4,25% e il 4,50%. Jerome Powell, presidente della Fed, ha infatti più volte ribadito la necessità di “pazienza” prima di procedere con ulteriori tagli, sottolineando come l’economia statunitense resti “in buona forma” nonostante segnali di rallentamento.
Se la stabilità dei tassi non sembra in discussione, il vero nodo è un altro: quanto la Fed è disposta a spostare la percezione dei mercati sulla traiettoria futura? Il focus è sulla revisione delle previsioni macro (inflazione, crescita, disoccupazione) e sul nuovo “dot plot”, la mappa delle intenzioni dei membri del FOMC. Nell’ultima proiezione, la maggioranza prevedeva due tagli entro fine 2025 e una crescita del PIL reale al 2,1% (in rialzo dal 2% di settembre). Ma i dati recenti – tra timori occupazionali, guerre tariffarie e crollo della fiducia dei consumatori – potrebbero spingere la Fed a rivedere la crescita al ribasso e a considerare un maggiore allentamento in futuro.
Alla fine, più che sui numeri, la partita della Fed si gioca sulla percezione. Il sentiment dei consumatori è in picchiata, con attese di deterioramento delle condizioni di business superiori persino ai picchi del 2008 e aspettative di reddito familiare ai minimi dai lockdown. Un problema di fiducia che la banca centrale non può ignorare. La narrativa conta quanto le mosse sui tassi, perché l’inflazione percepita rimane elevata: il Conference Board la vede al 6% annuo, mentre l’Università del Michigan segnala un incremento al 3,9% sul lungo periodo, il massimo da trent’anni. Un mix letale: paura per il lavoro, perdita di potere d’acquisto e un “import price” che minaccia di spingere ancora più in alto l’indice PCE, la misura preferita dalla Fed. In questo scenario, Powell cammina sul filo, consapevole che ogni parola può spostare equilibri fragili.
E l’effetto si vede già sui mercati. Il posizionamento dei fund manager globali, secondo il sondaggio BofA Global FMS, mostra il “più grande calo di allocazione sull’azionario USA di sempre”. L’“America first” di inizio decennio sembra essersi trasformato in un “anything but the USA”, complice la debolezza del tech dopo l’ondata AI e l’incertezza politica generata dal ritorno di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca.
Il tycoon non ha mai nascosto le critiche alla gestione della Fed, accusandola di aver “fallito nel fermare un problema che essa stessa ha creato” e di dare troppa attenzione a diversità e clima a scapito della stabilità dei prezzi. Per ora, Trump non sembra intenzionato a rimuovere Powell prima del 2026, ma promette di influire maggiormente sulla politica monetaria. Un’incognita che i mercati non possono ignorare, anche se eventuali tagli ai tassi potrebbero giocar loro a favore.
In questo contesto, la Fed si trova a dover bilanciare esigenze contrastanti: da un lato, l’inflazione rimane ben al di sopra dei target, mentre dall’altro l’economia mostra segnali di rallentamento. La strategia più probabile è quella di mantenere i tassi fermi, adottando un approccio di attesa e valutazione, in attesa che ulteriori dati possano chiarire se il rallentamento attuale sia solo temporaneo o se stia per evolvere in una recessione vera e propria. Un ulteriore nodo critico riguarda il Quantitative Tightening (QT). Sebbene alcuni membri del FOMC siano favorevoli a un rallentamento del ritmo di riduzione del bilancio, non esiste ancora un consenso unanime. Una decisione della Fed di rallentare o sospendere il QT verrebbe interpretata non come un segnale di imminenti problemi di liquidità o instabilità finanziaria, ma piuttosto come una misura cautelativa volta a gestire l’elevata incertezza economica e politica attuale, permettendo così di mantenere un’adeguata flessibilità operativa.
Il mercato azionario, intanto, gioca in difesa. Gli investitori stanno abbandonando l’azionario USA a ritmi record, cercando aree con minori rischi politici e valutazioni più attraenti. Anche il cosiddetto “Magnificent 7” dei titoli tech perde terreno, segnalando la fine dell’entusiasmo AI e la paura che il famoso “Fed put” – l’idea che la banca centrale possa intervenire a sostegno del mercato – sia meno scontato che in passato. Con un’inflazione persistente, la Fed non può tagliare aggressivamente i tassi senza un chiaro segnale di recessione.
Il FOMC di marzo potrebbe essere un non-evento dal punto di vista dei tassi, ma sarà ricco di segnali sulla direzione della Fed. Gli investitori attendono la conferenza di Powell e il nuovo Summary of Economic Projections (SEP) per capire quanto la banca centrale voglia mantenere la barra dritta sulla lotta all’inflazione e quanto sia pronta a un “pivot” nei prossimi mesi. L’“effetto Trump” resta un elemento di volatilità aggiuntiva: le pressioni politiche potrebbero accentuare il dilemma tra contenere l’inflazione e sostenere l’economia, complicando la missione della Fed.
A conferma della tensione che si respira sui mercati, dallo scorso meeting FOMC del 29 gennaio 2025, l’S&P 500 ha ceduto il 7%, un crollo tra due riunioni della banca centrale che non si vedeva dal 15 giugno 2022, quando l’indice perse il 12,5% in pieno avvio del ciclo restrittivo sui tassi d’interesse. Un segnale chiaro: i mercati non stanno semplicemente osservando le mosse della Fed, ma stanno già prezzando l’incertezza. Se Powell vuole riportare stabilità, dovrà muoversi con estrema precisione, perché la partita – ancora una volta – si gioca sulle aspettative.