Banche Italiane nell’Occhio del Ciclone Finanziario

Con il settore bancario instabile, colpito da un uno-due che non lascia respiro – declassamento di Moody’s negli Stati Uniti e tassa sugli extraprofitti in Italia – gli investitori ostentano le loro preoccupazioni, con i principali indici globali che chiudono la seduta di martedì in territorio negativo. Allo stesso tempo, i dati sul commercio cinese, più deboli del previsto, hanno sollevato ulteriori preoccupazioni sulla ripresa della seconda economia mondiale. Cocktail perfetto che ha portato al ribasso di tutti i principali settori europei, mentre negli Stati Uniti solamente il sanitario, utilities ed energetico riescono chiudere in territorio positivo. Apprensioni che evidenziano la preferenza degli investitori nel posizionarsi sulla difensiva, con il comparto obbligazionario in spolvero e con i rendimenti in calo, dopo diverse sedute di rialzi

Italia che paga il conto più caro, visto il suo maggior peso sul comparto bancario, con il principale listino milanese che cede oltre i 2 punti percentuali, unico tra i maggiori listini mondiali e, con il comparto bancario che, in una sola seduta, vede bruciare circa 10 miliardi di capitalizzazione.  Dopo l’ostentamento di trimestrali record e l’essersi affermate come figure centrali nel recupero del FTSE MIB, posizionandosi tra gli istituti bancari di maggior successo a livello globale, le banche italiane pagano i loro eccessivi guadagni realizzati. Il Governo italiano ha infatti criticato l’inerzia delle istituzioni bancarie nel regolare i tassi di interesse a favore dei correntisti. Le banche hanno risposto rapidamente aumentando i tassi d’interesse sugli interessi passivi, ma hanno mostrato una maggiore lentezza (o addirittura assenza) nell’aggiustare i tassi d’interesse attivi, cioè quelli che i correntisti ricevono sui propri depositi. In risposta a questa situazione, il Governo ha intrapreso una mossa che, sebbene spiacevole, mira a correggere gli eccessivi profitti – malgrado non si immune da critiche e dubbi soprattutto per l’utilizzo di tali fondi.

Va tuttavia ricordato come la decisione italiana segue manovre simili già collaudate o minacciate altrove – Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca e Lituania e Regno Unito. Dopo la tassa degli extra profitti sul comparto energetico, le banche diventano quindi il nuovo centro di attenzione dei Governi. Alla fine, le banche sono un po’ un bersaglio facile, essendo poco popolari e rappresentando un modo semplice di placare l’insoddisfazione popolare alla crescente inflazione e l’ineguale distribuzione dei profitti che questa ha generato. Preoccupazioni per una diffusione dell’imposta in altri paesi europei che pone ora dubbi agli investitori e soprattutto traccia un maggiore solco tra i vari Governi nazionali e la gestione della politica monetaria di Bruxelles.

In un contesto di vendite sul comparto bancario risulta invece interessante osservare la resilienza su tutta la linea delle criptovalute. Dato che potrebbe essere letto in un’ottica anti-bancaria oppure semplicemente quale riflesso di una correlazione prossima allo zero delle cripto con i titoli tecnologici.

Un fattore di supporto per le azioni è stato invece offerto dalla FED, con il commento accomodante di martedì del presidente della Fed di Filadelfia Harker, che ha dichiarato come in assenza di nuovi dati allarmanti tra oggi e metà settembre si possa assumere di essere al punto in cui si possa essere pazienti e mantenere i tassi di interesse costanti e lasciare che le azioni di politica monetaria facciano il loro lavoro.

Decisi movimenti si continuano a registrare sui prezzi del petrolio. I futures del greggio WTI hanno ieri invertito le perdite iniziali, dal minimo intraday di $79,9 e chiusura giornaliera a $82.92) attestandosi sui massimi di quasi quattro mesi, dopo che un rapporto mensile dell’Amministrazione dell’Informazione Energetica degli Stati Uniti ha esposto prospettive più rosee per l’economia statunitense. L’EIA ha anche invertito la previsione di un deficit di offerta nei mercati petroliferi globali per il 2023 e ora prevede un aumento più marcato della produzione OCSE non OPEC rispetto al passato, con la produzione statunitense che dovrebbe aumentare di 850.000 barili al giorno fino a 12,76 milioni di bpd nel 2023. La domanda globale dovrebbe rimanere invariata. Allo stesso tempo, i prezzi sono stati sostenuti dalle limitazioni dell’offerta. Resistenza dell’area degli $83 nuovamente messa sotto pressione.

 

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